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L’unità di Ninni Holmqvist





Un romanzo distopico che per certi versi mi ha ricordato Atwood, anche se in realtà l’autrice, Ninni Holmqvist sembra prendere le distanze da certi aspetti del femminismo, invece supportati dalla grande scrittrice canadese.

Il fil rouge di questo breve libro - oltre ad avere poche pagine lo si divora -  mi è infatti sembrata essere la domanda “a cosa ha portato la pretesa di indipendenza da parte delle donne nella dinamica dei rapporti di genere?” 

Proprio nelle prime pagine l’autrice descrive la paura - anzi il terrore - della protagonista, Dorrit, di sentirsi in trappola. All’inizio una sensazione molto concreta, che si presentava in spazi piccoli o dove c’è troppa gente, e poi la paura nei confronti di qualsiasi tipo di vincolo alla propria libertà. Questo perché la madre  aveva educato lei e le sue sorelle con il motto: “Guardatevi dal permettere a un uomo di mantenervi, economicamente, intellettualmente ed emotivamente. Non cadete in trappola!” 

Il romanzo è ambientato nell’età adulta della protagonista che ormai cinquantenne ricorda il contesto di quando era bambina e vive le conseguenze della società del “benessere individuale”:


Era importante il benessere individuale. Era importante la realizzazione di se stessi. Guadagnare tanti soldi e comprare un mucchio di beni e servizi non era considerato fondamentale - sì, in effetti, non gli si dava nessun peso. Bastava guadagnare di che vivere. Ciò che contava era farcela, cavarsela da soli, essere indipendenti a livello economico, sociale, mentale ed emotivo, ed era sufficiente. […] L'ideale da raggiungere era innanzitutto trovare se stessi, evolversi, trasformarsi in un essere umano completo, amato e rispettato e che non dipendeva dagli altri. Questo valeva soprattutto per le donne. 



Nel mondo che prende forma dall’individualismo portato all’estremo, la vita ha valore e quindi la persona è indispensabile se dà il suo contributo alla conservazione della specie, quindi alla procreazione. Tutti gli altri sono “i dispensabili”. Allo scoccare dei cinquant’anni per le donne e dei sessanta per gli uomini chi non ha figli, magari proprio perché non è riuscito o non ha voluto  ad adattarsi a una vita senza sentimento, viene portato all’Unità. Qui diventerà una cavia da laboratorio per una serie di test farmacologici o, nel migliore dei casi, psicologici oppure donerà i propri organi uno per uno fino alla “donazione finale”. In questo modo potrà finalmente essere utile alla società, sacrificandosi per chi, nel mondo fuori è genitore. 


Nel mio mondo era un grande tabù essere, o addirittura sognare di essere, sentimentalmente o economicamente dipendente da qualcuno e nutrire il benché minimo desiderio di vivere in simbiosi con un’altra persona. Tuttavia  - o forse proprio per questo - ho sempre provato una sorta attrazione per un’esistenza del genere. 


Guardando alla situazione attuale e senza voler nulla togliere all’empowerment femminile, che condivido pienamente, questo romanzo appare una voce fuori dal coro che fa riflettere. Inoltre è scritto molto bene e come detto prima lo si divora!



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