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Recensione al romanzo "Come il fiume", di Shelley Read


«Ero una brava ragazza. Ero sempre stata obbediente, rispettosa e servizievole con gli adulti. Avevo letto la Bibbia. Sistemavo le pesche nelle ceste come se fossero di cristallo. Tenevo la casa pulita, le pance piene, la biancheria piegata, la fattoria curata. Non facevo troppe domande, non mi facevo mai sentire quando piangevo. Avevo capito come andare avanti senza una madre, tutto da sola. E poi avevo incontrato uno straniero sporco all’angolo tra North Laura e Main Street, e mi ero innamorata. Come un unico temporale può erodere gli argini e cambiare il corso di un fiume, così un singolo avvenimento nella vita di una ragazza può cancellare chi era prima.»

In questo avvincente romanzo, Come il fiume,  ambientato in Colorado, la storia degli Stati Uniti, dal secondo dopoguerra alla guerra del Vietnam, si intreccia con quella di Torie e della sua famiglia di coltivatori di pesche. 

Torie conduce una vita monotona, tipica delle ragazze del suo tempo: fa le faccende di casa e aiuta nei campi il padre e Seth, il rabbioso fratello. Un giorno però incontra Wil, un «pellerossa», come lo chiamano con disprezzo in paese. Wil sarà l’amore della sua vita, e gliela cambierà per sempre. L’incontro con Wil determina un prima, e un dopo.

Quell’amore, istantaneo e travolgente, le fa scoprire luoghi sconosciuti, sia interiori che esteriori, e la trasforma in Victoria, non più ragazza ma donna, non più “succube” ma libera, per la prima volta nella sua vita. La porta a scappare di casa, a rifugiarsi nella foresta, dove imparerà a rinunciare a tutto ciò che non è necessario, che la natura è resiliente, così come le donne, e che la vita va vissuta giorno per giorno.

Ma le insegna anche che nella vita non è detto che se si fa del bene, si riceverà del bene, che la violenza è spesso legata all’ignoranza e alla paura del diverso (tema purtroppo attuale) e che per un figlio si è pronti a tutto, anche ad affidarlo a una sconosciuta, per potergli garantire un futuro migliore. 

La prosa di Read è scorrevole, punteggiata da metafore legate alla natura, all’ambiente campestre e al cibo. Nata e cresciuta in Colorado descrive, come solo un autoctono sa fare, le foreste, i fiumi, gli alberi, le stagioni, i suoni e gli odori della montagna. Io che amo profondamente la montagna (e che da anni sogno un viaggio in Colorado), ho provato quasi una punta di nostalgia per questi luoghi a me sconosciuti, come quella che sento quando penso ai miei luoghi del cuore quando sono lontana. Capita anche a voi?

Molto buono anche il lavoro di Elisabetta de Medio: solo in pochissimi punti ci si accorge che si tratta di una traduzione.



di Monica Nastasi

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