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K. Jennings, Un’isola: recensione





In Un'isola, Karen Jennings dà vita a un personaggio che non ha bisogno del narratore per guardarsi da fuori. Si passa da uno sguardo all'altro con effetto prismatico una microstoria personale su cui grava l'impronta della macrostoria sinistra, ma anche disorganizzata, un universo politico del quale non è importante capire a quale Paese riferirlo. Così è anche per il colore della pelle di chi si sta parlando, forse perché tutti i derelitti ricadono sotto lo stesso cielo cupo, che pesa sui selciati ingombri di rifiuti umani e di rifiuti di rifiuti umani. Bisognerebbe frugare nell’avvicendarsi di dittatori e di partiti di liberatori nei vari stati africani per capire le dinamiche di segregazione, tortura e migrazione descritte nel libro, ma anche in questo caso non è molto importante. C’è un implacabile mano della violenza della condizione umana declinata nelle sue relazioni che guida un poveraccio, Samuel, prima in prigione, suo malgrado, perché è tutt’altro che un eroe politico, e poi su di un'isola. Lì va a fare il guardiano di un faro, che peraltro non funziona neanche tanto bene, prende le consegne da Joseph, che lo ha preceduto e cammina sicuro sull’isola, ma se ne va subito. Samuel ha quei pochi denti rimasti dopo decenni passati in prigione, è vecchio, stanco e sofferente alle articolazioni e non solo. Nonostante ciò, però, si dà da fare per l’isola che fa sua e difende dal mare.



“Quando Samuel era arrivato sull’isola, era stato quel ribollire d’acqua che l’aveva spaventato più di tutto, più dell’isolamento e della stranezza del terreno. Tuttavia non aveva detto niente, aveva finto una sbigottita ammirazione davanti alle onde, al mare sconfinato tutt'intorno. Il muro, quel muro che non finiva mai di crollare, era stato, forse, il suo tentativo di tenerlo a bada, di proteggere la terra e se stesso dal suo assalto. Durante la settimana in cui il suo predecessore gli aveva fatto conoscere l'isola, insegnandogli come funzionava il meccanismo del faro, mostrandogli le spiagge e la costa, i luoghi da evitare, i punti pericolosi, Samuel non aveva sentito niente di più minaccioso del mare e del suo implacabile avvicinarsi. Non gli piacevano le cose che spargeva sulla spiaggia. La vegetazione tutto sommato era abbastanza facile da gestire, persino l'erba asfissiante, che si infilava ovunque. Era il mare che voleva domare.”


Ogni oggetto sbeccato, che arriva ogni quindici giorni con la barca dei rifornimenti, è prezioso, assume un suo carattere e un suo posto speciale nella casa vicino al faro dove il vecchio abita. Spacca le pietre che formano le ossa della sua isola ricoperta di poca terra e si fa l’orto e il pane, con tanta fatica. 

Ha tutto quanto gli serve, anche le sue galline aggressive, tutte insieme contro una vecchia gallina rossa che lui protegge e cura dagli attacchi delle altre. Tanta fatica ma tanto amore per quella poca terra che sopravvive al mare e ai suoi attacchi. Sull’isola rivive, moltiplicata per due, l'opposizione tra una forza maggiore e una minore destinata a soccombere, come sarebbe stato per il suo misero destino, se sull’isola non fosse arrivato. Questo è il senso che nutre la paranoia che il vecchio si riconosce, ma della quale, nessun altro, se non se stesso, ritiene responsabile.


Ha paura di tutto Samuel, soprattutto di quello che arriva dal mare, come i cadaveri. Jennings permea di orrore alcune pagine vivide di descrizioni che in realtà lasciano solo alla percezione del lettore capire di cosa si tratta, per poi naturalmente spiegare.


“Joseph lo guidò tra gli scogli e i crepacci finché non si ritrovarono sulla spiaggia di ciottoli. Spense la lanterna e Samuel si ritrovò a fissare il buio, improvvisamente cieco. C'era qualcosa che si muoveva. Qualcosa stava attraversando la spiaggia. Lo sentiva. Un rumore che gli gelò la schiena, gli fece rizzare i peli sulle braccia. Era il rumore che fanno le ossa. ‘Di solito ne prendo uno’, bisbiglio l'uomo. ‘Uno solo, eh, perché di più sarebbe uno spreco. Un uomo da solo ci mangia per giorni. Lo faccio cuocere e lo metto in ghiacciaia e mangio quello che riesco prima che vada a male. Una volta che incomincia a guastarsi è meglio lasciar stare. Rischi di passare una settimana sul cesso’. Samuel strizzò gli occhi. Davanti a lui i movimenti continuavano, quello strano cozzare di osso contro osso. Gli vennero in mente degli scheletri, tutti i morti e gli annegati del mondo gettati a riva su quella spiaggia. ‘Cosa sono?’, chiese. ‘Come cosa sono? Non hai mai visto un granchio prima d'ora? Arrivano ogni anno in questo periodo per accoppiarsi’.


Sono granchi enormi che il cambiamento climatico diraderà nel tempo fino a scomparire e fin qui tutto bene. Finché un giorno dal mare uno dei tanti cadaveri di migranti sbattuti contro i sassi del muro che delimita l'isola si trasforma in un essere vivente.




di Giovanna Bagnasco




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