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K. Jennings, Un’isola: recensione

In Un'isola , Karen Jennings dà vita a un personaggio che non ha bisogno del narratore per guardarsi da fuori. Si passa da uno sguardo all'altro con effetto prismatico una microstoria personale su cui grava l'impronta della macrostoria sinistra, ma anche disorganizzata, un universo politico del quale non è importante capire a quale Paese riferirlo. Così è anche per il colore della pelle di chi si sta parlando, forse perché tutti i derelitti ricadono sotto lo stesso cielo cupo, che pesa sui selciati ingombri di rifiuti umani e di rifiuti di rifiuti umani. Bisognerebbe frugare nell’avvicendarsi di dittatori e di partiti di liberatori nei vari stati africani per capire le dinamiche di segregazione, tortura e migrazione descritte nel libro, ma anche in questo caso non è molto importante. C’è un implacabile mano della violenza della condizione umana declinata nelle sue relazioni che guida un poveraccio, Samuel, prima in prigione, suo malgrado, perché è tutt’altro che un eroe pol

Ladra di parole

Il tramonto è come un rosa “gialla, rossa e viola con le foglie lucide.”   Per Adunni la sua mamma è una rosa coi colori del tramonto. “E, se faccio un respiro col naso, sento anche il suo profumo. Quel profumo dolce del cespuglio con le rose che cresce attorno all’albero di menta, del sapone al cocco dei suoi capelli dopo che se li lavava alle cascate di Agan.” In Nigeria, secondo Il libro dei fatti del 2014, che introduce ogni capitolo di questo romanzo, il 30% delle attività registrate appartiene alle donne. Sono le donne come la mamma di Adunni o Big Mama a mandare avanti l’economia nigeriana, ma senza i loro mariti la crescita delle loro attività viene gravemente ostacolata. Anche se gli uomini sono alcolizzati, violenti e disoccupati.   Allora la rosa ha vita dura e appassisce “pestata dai piedi sporchi di un uomo”. “Se ci ripenso a queste cose, mi fa sentire subito il sapore salato delle lacrime in bocca e, quando torno alla mia stuoia e chiudo gli occhi, vedo la mamma com